mercoledì 29 maggio 2013

“Il passato è un prologo” Un’intervista esclusiva: il celebre traduttore Gregory Rabassa incontra Maria Bennett. Traduzione di Annelisa Addolorato






                                                                                              
(Realizzata con l’appoggio di Stanley H. Barkan, titolare della casa Editrice Cross-Cultural Communications)
Una volta la poetessa Muriel Rukeyser disse che l’universo è fatto di storie, non di atomi. Per il celebre traduttore letterario Gregory Rabassa, conosciuto in tutto il mondo, la vita e il lavoro sono intrecciate in una fitta rete di storie, i gioielli nella rete di Indra, che lui e sua moglie Clem hanno recentemente sfoggiato gentilmente davanti a noi durante un assolato pomeriggo di settembre. Nato a Yonkers (New York) nel 1922 (non lontano dalla casa natale di Ella Fitzgerald, dove oggi campeggia una statua di bronzo della leggenda del jazz), l’ex crittografo OSS raggiunse la fama letteraria con la sua traduzione di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, vincendo nel 1977 il Premio alla Traduzione per il suo lavoro, che lo stesso García Márquez sostiene essere persino migliore del romanzo originale in spagnolo. La lista degli scrittori con cui ha lavorato durante gli anni suona come la lista del gotha degli scrittori ispanofoni e lusofoni: Cortazar, Lezama Lima, Vargas Llosa, Machado de Assis, Lispector. Ha già avuto modo di dire molto riguardo a loro nel suo libro di memorie riguardante la sua vita di traduttore, Se questo è tradimento, che nel 2006 vinse il premio PEN per la sezione ‘Arte delle Memorie’… Eppure credo che le sue storie migliori non siano ancora passate al vaglio della tradizionale macchina da scrivere Olympia blu che si trova di fianco a una pila di libri nel suo soggiorno nell’Upper East Side. Anche se deve essere dura fornire una costante fornitura di rocchetti all’antica perla, Rabassa la preferisce al compuer, ed è splendido immaginarlo mentre ticchetterà, in futuro, scrivendo di quando ha ballato insieme a Marlene Dietrich in una festa di OSS ad Algeri o dell’autostop da Dartmouth, sua alma mater, fino a New York City all’Onyx jazz club, dove si sarebbe goduto concerti di musicisti del calibro di Leadbelly, sassofonista di Brew Moore, e Charlie Parker. E c’è sempre la storia del corteggiamento alla sua adorata Clementine, una splendida artista e co-cospiratrice in questo cimine del tradimento traduttivo (fu Clem a scovare la brillante trovata di rendere la Guaracha di La Guaracha del Macho Camacho di Luis Rafael Sánchez come Macho Camacho's Beat, lasciando intatti il riferimento musicale e di danza musica e il ballo che sicuramente avrebbe messo in difficoltà altri traduttori). Ma oggi Gregory è soddisfatto nel trovarsi seduto in una comoda poltrona, con in mano il Libro egiziano dei morti (incluso nella sua breve lista dei preferiti), e condividendo i suoi pensieri sulla  traduzione o, come lui lo definisce, il lavoro di “uomo dei viaggi”.
Altri presenti: Clementine Rabassa  (Poetessa, moglie del traduttore)
Intervistatori partecipanti: 
Maria Bennett (Poeta/Principale intervistatrice)                                                                          Hassanal Abdullah (Poeta bengalese/Editore di Shabdaguchha)
Stanley Barkan (Poeta/Autore/Editore di Cross-Cultural Communications)
Bill Wolak (Poeta/Fotografo)

Non presenti (ma che hanno in precedenza inviato a Maria Bennett domande da rivolgere all’intervistato):

Beverly Matherne (Poetessa cajun/Traduttrice)
Kyung-Nyun Kim Richards (Poeta coreano/Traduttore)

Maria Bennett: Vorremmo chiederle tutto in merito alla sua lunga e straordinaria carriera di traduttore; ad alcune domande forse avrà già risposto in passato, ma tutte provengono da scrittori molti interessati nel suo lavoro. Mi sono sempre chiesta, data la portata del numero di opere che lei ha tradotto, quale di esse sia stata la sfida più grande.

Gregory Rabassa: In realtà la sfida più grande che ho affrontato è stato decodificare e tradurre i messaggi durante la II Guerra Mondiale riguardante la resa dei tedeschi in Italia. Alcuni erano in tedesco, che era un tratto. Il mio lavoro di crittografo ai quei tempi è stata contemporaneamente anche un’esperienza di traduzione. Comunque nell’ambito delle traduzioni letterarie, il lavoro più complesso è stato Paradiso, di Lezama Lima. È anche stato un libro difficile da leggere, così la pura complessità del romanzo sicuramente è stato uno dei motivi del successo della sua traduzione inglese. È stato come tradurre Joyce. In vita mia ho letto altri libri complessi, ma non ho mai dovuto tradurli. Ma è anche stato divertente. A volte i libri sono come puzzle: quelli difficili sono i più divertendi da tradurre.

Beverly Matherne: “Qualcuno che non conosce una lingua ha davvero il diritto di lavorare come traduttore del lavoro di uno scrittore in quella lingua? O forse con un “complice” che la conosce?

GR:  Solo in un senso; tecnicamente, no, ma in realtà, sì. Io on sono molto interessato ai tecnocrati della traduzione. Di solito non riescono a rendere molto bene il senso di ciò che traducono. È come se guidassero un’automobile, mentre il vero traduttore sta andando a cavallo; i pignoli possono trovare soluzioni inadatte.

BM: Una persona non madre lingua può essere considerate traduttore?

GR: In una certa misusa, ma non è un buon esempio, prendendo una parola del significato simile. Forse dovremmo trovare un altro termine per definire quell tipo di persona. O forse i traduttori dovrebbero essere distinti in traduttori di prima classe, seconda classe, eccetera. Il traduttore in questione deve conoscere qualcosa della terra ‘adottiva’, e capire che c’è poesia in ogni parola che si utilizza, e che nell’uso ci sono anche alcune parole preferite rispetto ad altre.

Stanley Barkan: Perché non si è mai occupato di poesia? Di fatto se ne tiene lontano, traducendo romanzi.

GR:  Credo che sia più difficile. Richiede più riflessione. E poi preferisco la mia poesia ‘vintage’. Non avrei mai potuto tradurre Shakespeare in spagnolo; non sono solamente parole. E se si considera la poesia contemporanea, potrebbe essere un lavoro infernale. Invece, se si fosse preso un libro e separato in strofe, avrebbe anche potuto funzionare.

MB: Lei dice di non leggere l’intera opera quando inizia il processo di traduzione. Come si articola questo suo metodo? Altri avrebbero innanzitutto letto l’intero libro.

GR: Funziona abbastanza bene perché non è un metodo, ma piuttosto un gesto, un’azione. Puoi rimanere vittima di un metodo.Per prima cosa, pensare al presente, al passato, al futuro. Quando traduci un libro, è del tutto nel presente, perché ancora non l’hai letto tutto. Se torno indietro e lo leggo, il present non lo è più, ma diventa passato. È difficile descrivere la differenza, ma è come se fosse il corso di latino, quando si doveva tradurne dei brani per imparare la lingua. Vai avanti ma non sai come sarà il futuro. È piuttosto come un mistero. È una sfida perché si sta ricostruendo qualcosa. Certamente richiede anche più attenzione lavorare con le parole di per se stesse, piuttosto che con un sistema. Come organizzare queste parole? Questo è il punto.

SB:  Perché si è concentrato esclusivamente sullo spagnolo e sul portoghese?

GR: Erano lì. E io li stavo insegnando. Non ho mai lavorato con il francese, anche se l’ho studiato a lungo. Se io mi fossi addottorato in lingua francesre, avrei lavorato anche con il francese e con altre lingue. L’unica ragione per la quale mi sono occupato dello spagnolo e del portoghese è che erano a portata di mano. Ho sempre studiato il latino, che è una lingua complicata. E ho anche imparato il russo, che di solito viene considerato molto difficile, mentre io trovo che sia più semplice del latino.  Con il latino, mi sentivo soffocato dalla grammatica. Ma la formazione primaria è stata utile, quando abbiamo dovuto tradurre un brano in buon inglese. Ora non fanno più questo tipo di traduzione nelle lezioni di lingua. Dovevamo anche ordinare una tazza di caffé come parte dei nostri studi, ma questo è successo dopo.

MB: Quali lingue avrebbe voluto imparare?

GR: Sicuramente l’antico egizio! (dice indicando la copia del Libro egiziano dei morti che si trova accanto a lui). Avrei potuto lavorare su Proust, credo. Mi è sempre piaciuto molto; ma era troppo tardi quando ho pensato di dilettarmi con il suo capolavoro. Ora lo sto rileggendo con molto godimento.

MB: Ci sono anche altri “libri volati via” o autori che guardando indietro le fanno dire “avrei davvero dovuto cimentarmi con lui o con lesi!”?

GR: L’ho pensato a lungo il Sertão di Guimarães Rosa a lot: Veredas (tradotto da Harriet de Onís come The Devil to Pay in the Backlands). È molto affine a Finnegans Wake

MB: Wake è stato tradotto?

GR: Qualcuno ha sostenuto che lo stesso Finnegans Wake è una traduzione! Io so che Ulysses fu realizzato dal brasiliano Antonio Houaiss, che mise insieme un dizionario e che è di fatto un linguista. È
geniale per i giochi di parole, ma molta della poesia si è persa. Solo così si può andare lontano con opere del genere, dal momento che il divario tra le lingue è comunque presente.

SB: Quale premio o riconoscimento, tra più di cinquanta che ha ottenuto, è il più importante, ai suoi occhi?

GR: Per quanto riguarda il prestigio, la Medaglia Nazionale delle Arti è stata la più importante per me; l’altra fu la medaglia PEN per la traduzione concessa alla mia generazione. Sento che sto chiudendo il cerchio. Ho ricevuto il primo di questi premi, ma a maggio ho dovuto consegnare l’ultimo a Margaret Sayers Peden, un grande onore: come amico e collega la conosco da anni, per questo è una delle onoreficenze  che preferisco.

MB: Qualche anno fa un giornalista del New York Times ha scritto: “Se Rabassa fosse stato un neurochirurgo, non avremmo mai avuto  traduzioni leggibili delle migliori opere della letteratura latinoamericana. Poteva rientrare nella sua classifica delle professioni preferite?

GR: No, se mi fossi addentrato nell’ambito della medicina, sarebbe stato davvero un bel lavoro, ma non il lavoro adatto a me. Probabilmente ce l’avrei fatta, ma non so fino a che punto sarei stato bravo.

MB: Fortunatamente per noi non lo sei stato!

Kyung-Nyun Kim Richards: Quale consiglio darebbe agli aspiranti traduttori che stanno iniziando ora a lavorare?

GR: Di fare i neurochirurghi! Faranno molti più soldi! Oh, di sicuro! (tutti ridono)

MB: Il giornalista del Times scrive anche che: “Lui ha capelli bianchi che indossa come se fosse una corona”. Se questo è vero, lei è il re della traduzione letteraria latinoamericana?

GR: La corona la indosso davvero. Forse è quello che voleva dire, una testa coronata.

SB: Ma è difficile che una testa coronata menta!

MB: Ma in molti casi, è vero. Pensa a Rayuela, di Cortazar (Hopscotch, la prima incursione di Rabassa nella traduzione letteraria), García Márquez e il Boom complessivo negli anni Sessanta. Se lei non si fosse cimentato in quelle embrionali traduzioni, gli Stati Uniti non avrebbero conosciuto quel genere letterario. Lei si è trovato nel posto giusto al momento giusto.

GR: Sì, Cent’anni di solitudine ebbe una risposta molto ampia. Ma le persone oggi se ne sono dimenticate. Se non l’avessero fatto, si sarebbero accorti che il pozzo esploso nel Golfo si chiamava proprio “Macondo.” E dove è finito il petrolio? È andato alla deriva a Barataria, l’isola di Sancho. L’intera questione del petrolio nel Golfo è stata letteraria!

SB: Mi sono chiesta se lei preferisce occuparsi di letteratura brasiliana o di quella portoghese?

GR: Preferisco quella brasiliana. È come se io fossi brasiliano d’adozione, quindi mi prendo gioco del portoghese. Questa lingua è molto ‘stretta’ perché il Portogallo è una piccola nazione; i portoghesi hanno poco spazio per espandersi e affrontare gli altri. Al contrario, il Brasile è molto grande.

MB: So che lei si dilettava condividendo con Julio Cortázar la passione per il jazz, che vi scambiavate dischi, e che entrambi amavate la musica innovativa di Charlie Parker. Pensavo che lei avrebbe avuto qualche idea riguardante il legame tra musica e arte del tradurre.

GR: Ci può essere un nesso tra note e idee. Ma credo che non sia necessario scegliere uno strumento. Da giovane andavo in autostop da Dartmouth alla 52° Strada per ascoltare jazz. A quei tempi viaggiare con i camionisti era più sicuro. Andavo al Three Deuces e al Kelly’s Stable, e più tardi al Village to The Open Door, che ora forma parte della Scuola New-yorkese di Diritto. Ricordo anche di aver visto Leadbelly al Village Vanguard, e anche Brew Moore, il sassofonista. Avevo un pianoforte bianco nel mio primo appartamento, ma non ho mai imparato a suonarlo.

MB: Quale è stato il suo errore più grande, se c’è stato, come traduttore?

GR:  Probabilmente ho fatto moltissimi piccoli errori, ma ancora nessuno li ha scovati. Non posso pensare a un solo libro in cui non ne abbia fatti, perché mi piacciono tutti, persino i peggiori! E con Asturias, l’unica cose sbagliata è stata che non aveva avuto intorno Maxwell Perkins che accorciasse un po’ il suo lavoro. Non sono molto contento della traduzione cui hanno messo il titolo di Bras Cubas as Epitaph of a Small Winner. È stato cambiato anche Quincas Borba.

MB: Perché hanno cambiato in modo così sostanziale anche Bras Cubas?

GR: Credo che allora stessero cercando di rendere il ruolo di questo luogo minore in America Latina.

MB: Spesso mi sono chiesta come lei sia arrivato al titolo di Macho Camacho’s Beat dall’originale titolo La guaracha del Macho Camacho, di Luis Rafael Sánchez da Porto Rico. È perfetto, e mantiene lo stesso ritmo musicale della guaracha.

GR: Bene, il traduttore è seduto proprio qui! (dice indicando sua moglie, Clementine) E il ‘beat’, il battito ha due significati, e include ‘i colpi’ dei poliziotti.

Clementine Rabassa: Eravamo seduti sulla spiaggia di Luquillo, a Porto Rico, e stavamo discutendone con l’autore, e non abbiamo resistito. Io adoravo ballare la musica latinoamericana all’epoca di Tito Puente, e la musica forma parte della cultura in modo così sostanziale che è stato necessario mantenerne il senso anche nel titolo del libro.

MB: Clem, in che misura lei ha supportato, aiutato suo marito nel suo lavoro?

CR: Un po’, ma non molto. Dal 1966, l’ho tolto dalla strada. (Lei ride)

MB: E immagino che anche il suo lavoro di professore a CUNY l’abbia fatto. Ricordo quando negli anni Ottanta studiavo al Dipartimento del  CUNY di Letteratura Comparata; la prima cosa che gli altri studenti mi dissero fu che mi dovevo subito iscrivere al corso di traduzione del Prof. Rabassa’s , perché era così popolare che i posti disponibili finivano molto in fretta. Era così, mi iscrissi ed era l’appuntamento più avvincente della settimana che io ricordo. I suoi studenti la adoravano. Le sue storie, I suoi aneddoti facevano luce sulla trama della rete del traduttore. Come ha trovato il tempo per insegnare e svolgere anche il suo lavoro di traduttore?

GR: Non sono un ricercatore. Prima mi siedevo e lavoravo alle mie traduzioni, e poi dal momento che avevo letto i libri, potevo insegnare, e semplicemente entrare in classe e parlare. Sa, quando mi hanno chiesto di scrivere un libro sulla traduzione  (Se questo è tradimento), pensavo di averlo fatto, invece lo definirono libro di memorie did, anche se in realtà si trattava di una raccolta di diverse storie. Credo che qualcuno mi abbia definito un vecchio stupido! (Ridiamo)

Hassanal Abdullah: Ci può spiegare come è cambiato l’insegnamento della traduzione?

GR: Ho tentato di parlare di questo, perché credo che non si possa realmente insegnare. La parte fisics è l’editing di un testo tradotto. Non posso dire come lo faccio io, ma posso aiutare uno studente a riprodurre tale processo. E lei lo sa, Hassanal, io amo il vostro alfabeto.

HA: My language is something for which studenti che furono uccisi nel 1952, quando i Pachistani volevano che parlassimo urdu.

GR: García Márquez descrisse in modo sublime l’alfabeto sanscrito, in Cent’anni di solitudine. Scrisse: “Le lettere sono infilate insieme come panni stesi”.

HA: Cent’anni di solitudine - è stato quest il primo libro? Come arrivò a questo libro?

GR: Al centro per le Relazioni Inter-Americane, inaugurarono un dipartimento culturale per realizzare traduzioni in inglesei di libri latinoamericani. García Márquez era diventato famoso, così dissero,  “Avventuriamoci nell’inglese!”. Scrissero a vari editori, e Harper and Row, con Cass Canfield Junior, furono coinvolti. Dal momento che avevo già realizzato alcune traduzioni, mi chiesero se volevo occuparmi della versione inglese del libro.

HA: Sia io che mia moglie riteniamo che la traduzione di questo libro sia più ricca dell’originale.

GR: Lo stesso García Márquez è d’accordo. Io ritengo, modestamente, che il merito vada alla lingua inglese. Si tratta di un libro che sarebbe potuto essere scritto in inglese. Come i sonetti di Shakespeare. Erano lì e Shakespeare riuscì a metterli giù come nessun francese avrebbe potuto fare.

SB: Ricordo che che le chiesero spesso se avesse abbastanza spagnolo. Ma lei ha risposto chiedendosi invece se avesse abbastanza inglese.

GR: Credo che il passato sia un prologo.

HA: Lei scrive anche in inglese. È cresciuto in una famiglia bilingue?

GR: Non proprio. Mio padre arrivò a New York a vent’anni e divenne un newyorkese. I cubani si adattano velocemente al paese che li accoglie. Quando si tagliava un dito, avrebbe inveito in spagnolo, ma sapeva farlo abbastanza bene anche in inglese. A volte sento ancora la sua voce che dice ‘mannggia’ in inglese: “God dem!”

HA: Crede che una famiglia bilingue avrebbe fatto la differenza, nel suo lavoro?

GR: Sì. Sarebbe stato diverso. La psicologia culturale mi fa sentire più che altro un outsider. Mio padre era un doppio esiliato, e mia madre semplicemente un’esiliata, dal momento che lui era esiliato da Cuba e poi era diventato un newyorkese e infine era emigrato nel New England. Mia madre era una newyorkina e considerava un po’ strano il modo di fare della gente, lassù. Di conseguenza anche noi bambini ci sentivamo esuli.

HA:  Ci può parlare della traduzione letterale versus una traduzione che  cerchi di rendere più ricca la versione di un testo?

GR: Non credo che ci sia molta differenza, ma potrei dire che la traduzione letterale è una cattiva traduzione; lascia fuori sempre qualcosa. Qualcosa di spirituale o di istintivo. Si pensa che ciò accada solo in inglese, ma in realtà è lo stesso anche in altre lingue.

SB: Come il taam (sapore/gusto).

GR: La traduzione letterale è più simile a un dizionario, e io adoro leggere i dizionari. Se avessimo preso in considerazione quello che è accaduto alla torre di Babele, non avremmo ottenuto nulla.

HA: Lei pensa che i traduttori siano adeguatamente riconosciuti come si suppone che dovrebbero essere in tutto il mondo?

GR: Come meriterebbeo? No di certo. Sono viaggiatori, persone che soddisfano un bisogno, ma non fanno nulla di più.

SB: Se esistesse il Premio Nobel per la traduzione, lei sarebbe il primo a riceverlo.

GR: Non lo otterrei perché non lo consegnano postumo!

HA:  Stan ha realizzato pubblicazioni in più di 53 lingue doing (ma chi le conta?), e lei ha collaborato con lui per un po’. Può raccontarci qualcosa in merito?

GR: Ci sarebbe molto da dire, perché tutte le volte che Stan pubblica un libro, la mia prima reazione spontanea è quella di scuotere la testa e dire, “Come fa una persona a fare una cosa del genere?” Quando lo vedo e vedo come c’è chi vorrebbe negarlo, ma vedo una persona molto rilassata,anche se potrebbe sbuffare. Mi auguro che qualcuno dei suoi libri abbia un grande impatto globale, ma difficile con i lavori di traduzione  non abbastanza “comuni”. La roba mediocre vende. Il bestseller straniero assoluto è L’alchimista, un polpettone.

Bill Wolak: Ci parli della II Guerra Mondiale.

GR: Schedata. (Ride) Sto scherzando; Jim Black era uno dei miei  camerati. Ci davano tutte le istruzioni per dare nome grado e numero di matricola, se fossimo stati catturati. Jim ci rifletté su e disse, “Io dirò loro tutto ciò che so, ma li annoierò a morte con tutti i dettagli”. Sono stato in Italia e in Nordafrica. Mi sono occupato della resa in Italia, trattando con Karl Wolff, il SOB che era a capo delle SS in Italia. Noi andammo in Yugoslavia per portare via i piloti abbattuti che stavano bombardando i giacimenti petroliferi rumeni. I partigiani li avrebbero presi e radunati e saremmo andati e avremmo cercato di portarli in Italia.

BW: La decrittazione l’ha aiutata per il lavoro di traduzione? Quando io insegno poesia dico ai miei studenti di decodificarla; una volta che si è considerato il codice come similitudine e metafora, è OK.

GR: Il primo passo era tradurre dall’inglese all’inglese; se ricevevamo un messaggio dal campo di battaglia, i codici erano così dannatamente semplici e primitivi che qualsiasi tedesco li avesse avuti li avrebbe decifrati. Nel caso in cui il testo in chiaro fosser arrivato dal centro messaggi, lo si doveva cambiare, e ogni messaggio doveva essere parafrasato. Era dura. Bisognava lavorare in modo che se l’avessero trovato, si sarebbe voluto più tempo. Cose come “ordine di battaglia” - erano difficili da rendere più complesse, così usavamo cifrari e dovevamo cavarcela con i sinonimi.

BW: L’appassiona ancora il suo lavoro di traduttore?

GR: Non so se me ne sono mai appassionato. L’ho fatto ma mi si sono trovato invischiato e arruolato.

BW: E lei cosa ottiene da questa minuscola macchina da scrivere?

GR: Ne ricavo l’entusiasmo e la cerco quando la coscienza mi chiama. Ora c’è una storia di San Cristoforo di Eça de Queiroz. Spesso scrivo a mano, ma per me la traduzione è più semplice con la macchina da scrivere. Questa è stata in Brasile molte volte; quando arrivo a un capo devo interrompermi, prendere il rocchetto e riavvolgerlo. C’è ancora un posto sulla Terza Strada dove puoi trovare un nastro. Di solito io ne compro un paio perché non voglio imparare a usare il computer. È una distrazione.

BW: Può descriverci la sua attuale routine quotidiana?

GR: Posso lavorare di giorno, ma di notte ci piace guardare vecchi film su TCM.
Guardo le notizie sul Canale 21, di solito NewsHour con McNeil. Il bello di TCM è che non pubblicizza altro che i loro stessi programmi.

HA: Gli indiani, soprattutto gli indù, credono nella reincarnazione. Cosa vorrebbe essere nella sua prossima reincarnazione?

SB: Un neurochirurgo!

GR: Se mi servisse a qualcosa mi reincarnerei in Dio. Così non dovrei preoccuparmi di nulla. Meglio dell’assicurazione sanitaria! Oppure una creatura nell’universo al di là del telescopio.

SB: Lei ci ha accompagnati in un tour tra passato e presente. Obrigado! Many thanks! Grazie!



Traduzione italiana dall'inglese di Annelisa Addolorato


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