martedì 1 ottobre 2013

La farfalla vestita di led (o la scelta del volo) _ Prima parte



Variazioni sul realismo terminale del poeta Guido Oldani. 
Prima Parte

di Annelisa Addolorato






Non è vero niente che la poesia sia finita, al contrario una totalmente altra sta incominciando. Ce n'è per un tempo, la cui lunghezza non sappiamo nemmeno immaginare. 
(Guido Oldani, Blog di Lietocolle)



Oldani Guido, Realismo terminale, Mursia 2010.

‘Nulla è più vivo dell’alluminio’, leggo divertita in un cartello, mentre dondolo, insieme a lui, su un tram, in una piccola metropoli in cui si parlano mille lingue e a volte si suda insieme.
Pensandoci sì, oggi posso capire questa frase, che qui ha un senso alla raccolta differenziata dei rifiuti, ma che può perfettamente sintetizzare la teorizzazione del poeta italiano Oldani (nato il 2 maggio 1947 a Melegnano) riguardante la similitudine rovesciata, emblema linguistico e poetico che rispecchia l'attuale società mondiale in cui, come colorati bubboni farciti di architetture e design alla moda, ma anche di sofisticazioni tecnologiche a risparmio energetico o colorazione e modificazione degli alimenti, le città si espandono innescando mutazioni antropologiche che non si possono ignorare, tantomeno nel territorio poetico, che da sempre definisce gli abitanti del pianeta dando loro la parola attraverso la modalità primordiale e insieme estremamente innovativa dell’intuizione, della sintesi e, tradizionalmente, anche di voci che vengano ascoltate dalla comunità.

La progressiva migrazione di massa dei popoli del pianeta terra nelle grandi foreste di case e grattacieli, parchi e grandi animali serpeggianti e veggenti quali i tram e i metrò, ovvero il fenomeno delle ‘inurbazioni,’ la crescita delle megapoli, nel tessuto metropolitano che si nutre di se stesso: tutto ciò ha creato e continua a creare, e sviluppandosi a un ritmo e in una spirale vertiginosa di espansione, un gorgo estremamente creativo, un gorgo fatto di prodotti, di cose materiali e (spesso dotate di loro 'doppi' o cloni) immateriali, da toccare o virtuali, che stimola, pur nel mulinello che multidimensionale, i sensi e la facoltà fatica e anche un po’ profetica propria da sempre della poesia e di chi la fa, la dice, la scrive, la sogna e la vuole condividere e mettere al mondo come un suggerimento ulteriore allo sviluppo armonico di una civiltà capace di scoperte perpetue.

Octavio Paz nel Ventesimo secolo teorizzava che i prodotti, e soprattutto quelli artigianali, plasmati dalle mani umane, erano e sono carichi di significato socializzante per le persone, d’altro canto gli oggetti industriali portano anche con sé l’afflato anonimo e insieme, pur in altra forma, pregno di un senso di condivisione tra masse di esseri umani senzienti. Ma in effetti l’esperienza che un Paz poteva fare nel secolo scorso di questi mutamenti nella percezione e fruizione degli oggetti, era davvero estremamente embrionale, paragonata a quella che oggi ci può descrivere Oldani, che può parlarci da questo lato dell’oramai ‘quasi nuovo’ millennio.

Un mutamento antropologico, come ogni cambiamento, può essere considerato come un regalo, oppure come una iattura, ma questa seconda interpretazione diviene reale solo per chi rimane abbarbicato a ceneri ormai esaurite di qualcosa che non è più con noi, neppure nelle sue rinascite. E, come scrive Oldani, in questa seconda possibilità più ottusa “diviene un vivere fasciato da un sarcofago di prodotti, e allora una mummia”.
Direi che per chi scrive e vive in poesia, questo mutamento che in maniera così limpida e lineare descrive e presenta, non può che essere un dono, in quanto porta sfide nuove, linguaggi nuovi e spinte verso neologismi e nuovi giochi verbali, ampliando a dismisura il territorio ‘poetizzabile’ esistente. Proprio per questo motivo il presente testo, che vuole essere una breve anticipazione, introduzione alla lettura e di un più approfondito excursus e dispiegamento, apertura sul realismo terminale… è stato intitolato “La farfalla vestita (di led)”, proprio per rendere chiaro che chi scrive propende apertamente per la prima ipotesi che Oldani ci prospetta, come percezione, vissuto della mutazione di cui parliamo, cioè quella che fa e farà di noi l’essenza di “un vivere avvolto da un bozzolo di oggetti, e dunque una farfalla”.

Il realismo terminale teorizzato da Guido Oldani nel minimo e contemporaneamente ricchissimo, esauriente ed acuto saggio omonimo non chiude nessuna porta, se non quella con un passato che la luce degli occhi nega, ma al contrario spalanca l’orizzonte su questo mondo tutto da ri-nominare, totalmente permeato di poesia, in ogni prodotto o 'cosa', in ogni movimento tellurico e anche, appunto, originato dal movimento dei mezzi di trasporto pubblici, siano essi dotati di ruote, di ali, di altre forme di locomozione… reale o virtuale. Come immagine del poeta del realismo terminale, che sceglie di essere farfalla vitale e sorridente vate che invita gli altri ad esserlo, ho davanti agli occhi la fotografia un Oldani in un piccolo velivolo, che sorvola sorridente luoghi simbolici della storia recente dell’Italia. L’accettazione della mutazione, la curiosità del poeta e della poesia nei confronti di tutto quel che ciò comporta: questa la soluzione, la scelta, la sfida, a volto scoperto, a sorriso aperto e neuroni pronti ad accogliere e plasmare e plasmarsi nelle varie declinazioni del presente. La voce del poeta che accompagna il mare, il flusso di informazioni. Il poeta, i poeti, che accompagnano per mano verso la luce il cambiamento.
L’accettazione del cambiamento è una saggia strategia di adattamento e di sopravvivenza, perfettamente coerente con la natura polimorfa e poliedrica della poesia, del suo farsi e dirsi nel cosmo.
Il realismo terminale mette in guardia sul rischio riguardante le proporzioni e le ‘similitudini rovesciate’ di un mondo de-naturato.

Il misticismo curativo: include l’idea che tutto fa parte del punto di vista che si sceglie di adottare: costruttivo, anche di un linguaggio più attuale e proprio, vs un lasciarsi andare a malinconie antiche e chiuse su se stesse.
Gli orpelli, i prodotti (artigianali o industriali), i mobili, le immagini che scorrono su uno schermo svuotato, incavo, demolito dal tempo che ci scorre vorticosamente tra l’iride e le parole in codice, sempre pronte a svelarci nuove strategie di sopravvivenza, come le pubblicità, i messaggi rapidi, scoscesi, nascosti nella rete tra le fibbie invisibili del ritorno a casa.
Nel linguaggio comune sono entrate espressioni che fino a tempi recenti erano incomprensibili:
Come è bella quella pianta, quel fiore, sembra finto. O, anche: come è suggestivo quel paesaggio, sembra una fotografia (tempo fa si diceva anche ‘sembra una cartolina’).
Questi sono alcuni degli esempi più comuni, forse, in italiano, mutuati dal linguaggio colloquiale.
Di fatto Oldani  affronta di petto tutte queste questioni, con lucida precisione. Riconoscendo il valore storico, artistico, teorico delle avanguardie storiche, e anche affermando e mostrando, nella 'pratica' dei suoi versi, della sua poesia, in che misura le similitudini rovesciate si inseriscano, insedino con naturalezza nel panorama attuale, nell'esperienza quotidiana sia dello scrittore che del lettore di oggi.
Ci si para davanti un sistema perfetto, che difficilmente si può scalfire, anzi che nulla - o quasi - può scalfire, proprio come un dispositivo autoriparante - e in questo sì, la scrittura di Oldani mostra la sua coerenza tra forma e contenuti.
Il legame con la velocità e con la brevità si ripropongono, come analogie ma anche nel modo delle differenze di approccio.

Oldani parla di collisioni tra prodotti, come se fossero meteoriti, pianeti impazziti in corsa gli uni contro gli altri, in rotte precise, ben definite e rifinite, e dirottamenti perpetui, mentre si ravvisano piuttosto le connessioni tra i prodotti, la attuale e progressiva costituzione di una rete di connessione tra i prodotti, anche secondo la sua stessa descrizione e definizione del realismo terminale, volendo valorizzarne gli aspetti propositivi e migliorativi in un tempo, un’epoca in piena evoluzione verso un macrosistema planetario (e interplanetario).

La nuvola di prodotti da rt, come quella virtuale, è simile alla cloud che raccoglie in uno spazio virtuale tutti i nostri files e documenti, ordinandoli in modo a volte aleatorio a volte ossessivamente ordinato cronologicamente.

Questa connessione tra prodotti, versus la collisione tra essi, ne è anche la sorprendente strategia di sopravvivenza.
Non l’arcadia, ma neanche il realismo o l’iperrealismo: la poeticità oggi è diffusa e non più suffusa, è l’era ad essere poetica, un’era che si è aperta, come un origami universale  e multidimensionale e non c’è più scampo per nessuno: i prodotti poetici sono ovunque.

E ammirando un tramonto oggi comunemente sentiamo dire un po’ da tutti, iniziati e profani della fotografia - cioè della scrittura sulla e con la luce: che “quel paesaggio è così bello sembra una fotografia, cioè un insieme di pixel ben assemblati”.

Le ruote delle automobili oggi macinano i chilometri, come decenni e ancora più indietro secoli fa le ruote di pietra delle macine, fatte girare per esempio dai muli, come in Puglia o in altre regioni d’Italia, macinavano il grano, facendone farina, come oggi si macinano chilometri, divorando la strada, cioè percorrendo più velocemente di prima grandi distanze in uno spazio-tempo sempre più ridotto. Il carburante e la strada, il motore e le ruote macinano e macinano il tempo e lo spazio, trasformandolo in etereo coacervo di attimi presenti, da cogliere, respirare e poi gettare nel cestino del riciclaggio di minuti usati, a beneficio dell’intera comunità cittadina e interplanetaria.

“Tu sei come un motore diesel”, dicono di una donna per descriverne la pacata tenacia, la capacità -inizialmente lenta- di mettersi in moto, in un moto che diventa però poi perpetuo..: il paragone con un prodotto meccanico risulta molto efficace e comprensibile immediatamente dai più.

Il realismo terminale è in sé il vivace embrione di un universo totalmente poetizzato, e prelude in modo chiaro a un’era in cui assolutamente nulla e nessuno si può e potrà esimere dal riconoscere e utilizzare gli strumenti poetici insisti nei prodotti che ci circondano, che ci cambiano, che ci vestono e ci modificano in ogni molecola d’esistenza condivisa.

Ecco dunque un invito all’immersione nella realtà attuale, con tentacolari parole poetiche e pulsanti versi da schiacciare sulla tastiera, incidere con la voce nella 'Cloud-nuvola/acchiappa idee, esperienze' per condividere, rendere multidimensionali nuove strade comuni. 


-presto la seconda parte del testo riguardante rt, che inizierà con la risposta di Oldani a u quesito che gli abbiamo rivolto sul rt. -









giovedì 29 agosto 2013

martedì 11 giugno 2013

mercoledì 29 maggio 2013

“Il passato è un prologo” Un’intervista esclusiva: il celebre traduttore Gregory Rabassa incontra Maria Bennett. Traduzione di Annelisa Addolorato






                                                                                              
(Realizzata con l’appoggio di Stanley H. Barkan, titolare della casa Editrice Cross-Cultural Communications)
Una volta la poetessa Muriel Rukeyser disse che l’universo è fatto di storie, non di atomi. Per il celebre traduttore letterario Gregory Rabassa, conosciuto in tutto il mondo, la vita e il lavoro sono intrecciate in una fitta rete di storie, i gioielli nella rete di Indra, che lui e sua moglie Clem hanno recentemente sfoggiato gentilmente davanti a noi durante un assolato pomeriggo di settembre. Nato a Yonkers (New York) nel 1922 (non lontano dalla casa natale di Ella Fitzgerald, dove oggi campeggia una statua di bronzo della leggenda del jazz), l’ex crittografo OSS raggiunse la fama letteraria con la sua traduzione di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, vincendo nel 1977 il Premio alla Traduzione per il suo lavoro, che lo stesso García Márquez sostiene essere persino migliore del romanzo originale in spagnolo. La lista degli scrittori con cui ha lavorato durante gli anni suona come la lista del gotha degli scrittori ispanofoni e lusofoni: Cortazar, Lezama Lima, Vargas Llosa, Machado de Assis, Lispector. Ha già avuto modo di dire molto riguardo a loro nel suo libro di memorie riguardante la sua vita di traduttore, Se questo è tradimento, che nel 2006 vinse il premio PEN per la sezione ‘Arte delle Memorie’… Eppure credo che le sue storie migliori non siano ancora passate al vaglio della tradizionale macchina da scrivere Olympia blu che si trova di fianco a una pila di libri nel suo soggiorno nell’Upper East Side. Anche se deve essere dura fornire una costante fornitura di rocchetti all’antica perla, Rabassa la preferisce al compuer, ed è splendido immaginarlo mentre ticchetterà, in futuro, scrivendo di quando ha ballato insieme a Marlene Dietrich in una festa di OSS ad Algeri o dell’autostop da Dartmouth, sua alma mater, fino a New York City all’Onyx jazz club, dove si sarebbe goduto concerti di musicisti del calibro di Leadbelly, sassofonista di Brew Moore, e Charlie Parker. E c’è sempre la storia del corteggiamento alla sua adorata Clementine, una splendida artista e co-cospiratrice in questo cimine del tradimento traduttivo (fu Clem a scovare la brillante trovata di rendere la Guaracha di La Guaracha del Macho Camacho di Luis Rafael Sánchez come Macho Camacho's Beat, lasciando intatti il riferimento musicale e di danza musica e il ballo che sicuramente avrebbe messo in difficoltà altri traduttori). Ma oggi Gregory è soddisfatto nel trovarsi seduto in una comoda poltrona, con in mano il Libro egiziano dei morti (incluso nella sua breve lista dei preferiti), e condividendo i suoi pensieri sulla  traduzione o, come lui lo definisce, il lavoro di “uomo dei viaggi”.
Altri presenti: Clementine Rabassa  (Poetessa, moglie del traduttore)
Intervistatori partecipanti: 
Maria Bennett (Poeta/Principale intervistatrice)                                                                          Hassanal Abdullah (Poeta bengalese/Editore di Shabdaguchha)
Stanley Barkan (Poeta/Autore/Editore di Cross-Cultural Communications)
Bill Wolak (Poeta/Fotografo)

Non presenti (ma che hanno in precedenza inviato a Maria Bennett domande da rivolgere all’intervistato):

Beverly Matherne (Poetessa cajun/Traduttrice)
Kyung-Nyun Kim Richards (Poeta coreano/Traduttore)

Maria Bennett: Vorremmo chiederle tutto in merito alla sua lunga e straordinaria carriera di traduttore; ad alcune domande forse avrà già risposto in passato, ma tutte provengono da scrittori molti interessati nel suo lavoro. Mi sono sempre chiesta, data la portata del numero di opere che lei ha tradotto, quale di esse sia stata la sfida più grande.

Gregory Rabassa: In realtà la sfida più grande che ho affrontato è stato decodificare e tradurre i messaggi durante la II Guerra Mondiale riguardante la resa dei tedeschi in Italia. Alcuni erano in tedesco, che era un tratto. Il mio lavoro di crittografo ai quei tempi è stata contemporaneamente anche un’esperienza di traduzione. Comunque nell’ambito delle traduzioni letterarie, il lavoro più complesso è stato Paradiso, di Lezama Lima. È anche stato un libro difficile da leggere, così la pura complessità del romanzo sicuramente è stato uno dei motivi del successo della sua traduzione inglese. È stato come tradurre Joyce. In vita mia ho letto altri libri complessi, ma non ho mai dovuto tradurli. Ma è anche stato divertente. A volte i libri sono come puzzle: quelli difficili sono i più divertendi da tradurre.

Beverly Matherne: “Qualcuno che non conosce una lingua ha davvero il diritto di lavorare come traduttore del lavoro di uno scrittore in quella lingua? O forse con un “complice” che la conosce?

GR:  Solo in un senso; tecnicamente, no, ma in realtà, sì. Io on sono molto interessato ai tecnocrati della traduzione. Di solito non riescono a rendere molto bene il senso di ciò che traducono. È come se guidassero un’automobile, mentre il vero traduttore sta andando a cavallo; i pignoli possono trovare soluzioni inadatte.

BM: Una persona non madre lingua può essere considerate traduttore?

GR: In una certa misusa, ma non è un buon esempio, prendendo una parola del significato simile. Forse dovremmo trovare un altro termine per definire quell tipo di persona. O forse i traduttori dovrebbero essere distinti in traduttori di prima classe, seconda classe, eccetera. Il traduttore in questione deve conoscere qualcosa della terra ‘adottiva’, e capire che c’è poesia in ogni parola che si utilizza, e che nell’uso ci sono anche alcune parole preferite rispetto ad altre.

Stanley Barkan: Perché non si è mai occupato di poesia? Di fatto se ne tiene lontano, traducendo romanzi.

GR:  Credo che sia più difficile. Richiede più riflessione. E poi preferisco la mia poesia ‘vintage’. Non avrei mai potuto tradurre Shakespeare in spagnolo; non sono solamente parole. E se si considera la poesia contemporanea, potrebbe essere un lavoro infernale. Invece, se si fosse preso un libro e separato in strofe, avrebbe anche potuto funzionare.

MB: Lei dice di non leggere l’intera opera quando inizia il processo di traduzione. Come si articola questo suo metodo? Altri avrebbero innanzitutto letto l’intero libro.

GR: Funziona abbastanza bene perché non è un metodo, ma piuttosto un gesto, un’azione. Puoi rimanere vittima di un metodo.Per prima cosa, pensare al presente, al passato, al futuro. Quando traduci un libro, è del tutto nel presente, perché ancora non l’hai letto tutto. Se torno indietro e lo leggo, il present non lo è più, ma diventa passato. È difficile descrivere la differenza, ma è come se fosse il corso di latino, quando si doveva tradurne dei brani per imparare la lingua. Vai avanti ma non sai come sarà il futuro. È piuttosto come un mistero. È una sfida perché si sta ricostruendo qualcosa. Certamente richiede anche più attenzione lavorare con le parole di per se stesse, piuttosto che con un sistema. Come organizzare queste parole? Questo è il punto.

SB:  Perché si è concentrato esclusivamente sullo spagnolo e sul portoghese?

GR: Erano lì. E io li stavo insegnando. Non ho mai lavorato con il francese, anche se l’ho studiato a lungo. Se io mi fossi addottorato in lingua francesre, avrei lavorato anche con il francese e con altre lingue. L’unica ragione per la quale mi sono occupato dello spagnolo e del portoghese è che erano a portata di mano. Ho sempre studiato il latino, che è una lingua complicata. E ho anche imparato il russo, che di solito viene considerato molto difficile, mentre io trovo che sia più semplice del latino.  Con il latino, mi sentivo soffocato dalla grammatica. Ma la formazione primaria è stata utile, quando abbiamo dovuto tradurre un brano in buon inglese. Ora non fanno più questo tipo di traduzione nelle lezioni di lingua. Dovevamo anche ordinare una tazza di caffé come parte dei nostri studi, ma questo è successo dopo.

MB: Quali lingue avrebbe voluto imparare?

GR: Sicuramente l’antico egizio! (dice indicando la copia del Libro egiziano dei morti che si trova accanto a lui). Avrei potuto lavorare su Proust, credo. Mi è sempre piaciuto molto; ma era troppo tardi quando ho pensato di dilettarmi con il suo capolavoro. Ora lo sto rileggendo con molto godimento.

MB: Ci sono anche altri “libri volati via” o autori che guardando indietro le fanno dire “avrei davvero dovuto cimentarmi con lui o con lesi!”?

GR: L’ho pensato a lungo il Sertão di Guimarães Rosa a lot: Veredas (tradotto da Harriet de Onís come The Devil to Pay in the Backlands). È molto affine a Finnegans Wake

MB: Wake è stato tradotto?

GR: Qualcuno ha sostenuto che lo stesso Finnegans Wake è una traduzione! Io so che Ulysses fu realizzato dal brasiliano Antonio Houaiss, che mise insieme un dizionario e che è di fatto un linguista. È
geniale per i giochi di parole, ma molta della poesia si è persa. Solo così si può andare lontano con opere del genere, dal momento che il divario tra le lingue è comunque presente.

SB: Quale premio o riconoscimento, tra più di cinquanta che ha ottenuto, è il più importante, ai suoi occhi?

GR: Per quanto riguarda il prestigio, la Medaglia Nazionale delle Arti è stata la più importante per me; l’altra fu la medaglia PEN per la traduzione concessa alla mia generazione. Sento che sto chiudendo il cerchio. Ho ricevuto il primo di questi premi, ma a maggio ho dovuto consegnare l’ultimo a Margaret Sayers Peden, un grande onore: come amico e collega la conosco da anni, per questo è una delle onoreficenze  che preferisco.

MB: Qualche anno fa un giornalista del New York Times ha scritto: “Se Rabassa fosse stato un neurochirurgo, non avremmo mai avuto  traduzioni leggibili delle migliori opere della letteratura latinoamericana. Poteva rientrare nella sua classifica delle professioni preferite?

GR: No, se mi fossi addentrato nell’ambito della medicina, sarebbe stato davvero un bel lavoro, ma non il lavoro adatto a me. Probabilmente ce l’avrei fatta, ma non so fino a che punto sarei stato bravo.

MB: Fortunatamente per noi non lo sei stato!

Kyung-Nyun Kim Richards: Quale consiglio darebbe agli aspiranti traduttori che stanno iniziando ora a lavorare?

GR: Di fare i neurochirurghi! Faranno molti più soldi! Oh, di sicuro! (tutti ridono)

MB: Il giornalista del Times scrive anche che: “Lui ha capelli bianchi che indossa come se fosse una corona”. Se questo è vero, lei è il re della traduzione letteraria latinoamericana?

GR: La corona la indosso davvero. Forse è quello che voleva dire, una testa coronata.

SB: Ma è difficile che una testa coronata menta!

MB: Ma in molti casi, è vero. Pensa a Rayuela, di Cortazar (Hopscotch, la prima incursione di Rabassa nella traduzione letteraria), García Márquez e il Boom complessivo negli anni Sessanta. Se lei non si fosse cimentato in quelle embrionali traduzioni, gli Stati Uniti non avrebbero conosciuto quel genere letterario. Lei si è trovato nel posto giusto al momento giusto.

GR: Sì, Cent’anni di solitudine ebbe una risposta molto ampia. Ma le persone oggi se ne sono dimenticate. Se non l’avessero fatto, si sarebbero accorti che il pozzo esploso nel Golfo si chiamava proprio “Macondo.” E dove è finito il petrolio? È andato alla deriva a Barataria, l’isola di Sancho. L’intera questione del petrolio nel Golfo è stata letteraria!

SB: Mi sono chiesta se lei preferisce occuparsi di letteratura brasiliana o di quella portoghese?

GR: Preferisco quella brasiliana. È come se io fossi brasiliano d’adozione, quindi mi prendo gioco del portoghese. Questa lingua è molto ‘stretta’ perché il Portogallo è una piccola nazione; i portoghesi hanno poco spazio per espandersi e affrontare gli altri. Al contrario, il Brasile è molto grande.

MB: So che lei si dilettava condividendo con Julio Cortázar la passione per il jazz, che vi scambiavate dischi, e che entrambi amavate la musica innovativa di Charlie Parker. Pensavo che lei avrebbe avuto qualche idea riguardante il legame tra musica e arte del tradurre.

GR: Ci può essere un nesso tra note e idee. Ma credo che non sia necessario scegliere uno strumento. Da giovane andavo in autostop da Dartmouth alla 52° Strada per ascoltare jazz. A quei tempi viaggiare con i camionisti era più sicuro. Andavo al Three Deuces e al Kelly’s Stable, e più tardi al Village to The Open Door, che ora forma parte della Scuola New-yorkese di Diritto. Ricordo anche di aver visto Leadbelly al Village Vanguard, e anche Brew Moore, il sassofonista. Avevo un pianoforte bianco nel mio primo appartamento, ma non ho mai imparato a suonarlo.

MB: Quale è stato il suo errore più grande, se c’è stato, come traduttore?

GR:  Probabilmente ho fatto moltissimi piccoli errori, ma ancora nessuno li ha scovati. Non posso pensare a un solo libro in cui non ne abbia fatti, perché mi piacciono tutti, persino i peggiori! E con Asturias, l’unica cose sbagliata è stata che non aveva avuto intorno Maxwell Perkins che accorciasse un po’ il suo lavoro. Non sono molto contento della traduzione cui hanno messo il titolo di Bras Cubas as Epitaph of a Small Winner. È stato cambiato anche Quincas Borba.

MB: Perché hanno cambiato in modo così sostanziale anche Bras Cubas?

GR: Credo che allora stessero cercando di rendere il ruolo di questo luogo minore in America Latina.

MB: Spesso mi sono chiesta come lei sia arrivato al titolo di Macho Camacho’s Beat dall’originale titolo La guaracha del Macho Camacho, di Luis Rafael Sánchez da Porto Rico. È perfetto, e mantiene lo stesso ritmo musicale della guaracha.

GR: Bene, il traduttore è seduto proprio qui! (dice indicando sua moglie, Clementine) E il ‘beat’, il battito ha due significati, e include ‘i colpi’ dei poliziotti.

Clementine Rabassa: Eravamo seduti sulla spiaggia di Luquillo, a Porto Rico, e stavamo discutendone con l’autore, e non abbiamo resistito. Io adoravo ballare la musica latinoamericana all’epoca di Tito Puente, e la musica forma parte della cultura in modo così sostanziale che è stato necessario mantenerne il senso anche nel titolo del libro.

MB: Clem, in che misura lei ha supportato, aiutato suo marito nel suo lavoro?

CR: Un po’, ma non molto. Dal 1966, l’ho tolto dalla strada. (Lei ride)

MB: E immagino che anche il suo lavoro di professore a CUNY l’abbia fatto. Ricordo quando negli anni Ottanta studiavo al Dipartimento del  CUNY di Letteratura Comparata; la prima cosa che gli altri studenti mi dissero fu che mi dovevo subito iscrivere al corso di traduzione del Prof. Rabassa’s , perché era così popolare che i posti disponibili finivano molto in fretta. Era così, mi iscrissi ed era l’appuntamento più avvincente della settimana che io ricordo. I suoi studenti la adoravano. Le sue storie, I suoi aneddoti facevano luce sulla trama della rete del traduttore. Come ha trovato il tempo per insegnare e svolgere anche il suo lavoro di traduttore?

GR: Non sono un ricercatore. Prima mi siedevo e lavoravo alle mie traduzioni, e poi dal momento che avevo letto i libri, potevo insegnare, e semplicemente entrare in classe e parlare. Sa, quando mi hanno chiesto di scrivere un libro sulla traduzione  (Se questo è tradimento), pensavo di averlo fatto, invece lo definirono libro di memorie did, anche se in realtà si trattava di una raccolta di diverse storie. Credo che qualcuno mi abbia definito un vecchio stupido! (Ridiamo)

Hassanal Abdullah: Ci può spiegare come è cambiato l’insegnamento della traduzione?

GR: Ho tentato di parlare di questo, perché credo che non si possa realmente insegnare. La parte fisics è l’editing di un testo tradotto. Non posso dire come lo faccio io, ma posso aiutare uno studente a riprodurre tale processo. E lei lo sa, Hassanal, io amo il vostro alfabeto.

HA: My language is something for which studenti che furono uccisi nel 1952, quando i Pachistani volevano che parlassimo urdu.

GR: García Márquez descrisse in modo sublime l’alfabeto sanscrito, in Cent’anni di solitudine. Scrisse: “Le lettere sono infilate insieme come panni stesi”.

HA: Cent’anni di solitudine - è stato quest il primo libro? Come arrivò a questo libro?

GR: Al centro per le Relazioni Inter-Americane, inaugurarono un dipartimento culturale per realizzare traduzioni in inglesei di libri latinoamericani. García Márquez era diventato famoso, così dissero,  “Avventuriamoci nell’inglese!”. Scrissero a vari editori, e Harper and Row, con Cass Canfield Junior, furono coinvolti. Dal momento che avevo già realizzato alcune traduzioni, mi chiesero se volevo occuparmi della versione inglese del libro.

HA: Sia io che mia moglie riteniamo che la traduzione di questo libro sia più ricca dell’originale.

GR: Lo stesso García Márquez è d’accordo. Io ritengo, modestamente, che il merito vada alla lingua inglese. Si tratta di un libro che sarebbe potuto essere scritto in inglese. Come i sonetti di Shakespeare. Erano lì e Shakespeare riuscì a metterli giù come nessun francese avrebbe potuto fare.

SB: Ricordo che che le chiesero spesso se avesse abbastanza spagnolo. Ma lei ha risposto chiedendosi invece se avesse abbastanza inglese.

GR: Credo che il passato sia un prologo.

HA: Lei scrive anche in inglese. È cresciuto in una famiglia bilingue?

GR: Non proprio. Mio padre arrivò a New York a vent’anni e divenne un newyorkese. I cubani si adattano velocemente al paese che li accoglie. Quando si tagliava un dito, avrebbe inveito in spagnolo, ma sapeva farlo abbastanza bene anche in inglese. A volte sento ancora la sua voce che dice ‘mannggia’ in inglese: “God dem!”

HA: Crede che una famiglia bilingue avrebbe fatto la differenza, nel suo lavoro?

GR: Sì. Sarebbe stato diverso. La psicologia culturale mi fa sentire più che altro un outsider. Mio padre era un doppio esiliato, e mia madre semplicemente un’esiliata, dal momento che lui era esiliato da Cuba e poi era diventato un newyorkese e infine era emigrato nel New England. Mia madre era una newyorkina e considerava un po’ strano il modo di fare della gente, lassù. Di conseguenza anche noi bambini ci sentivamo esuli.

HA:  Ci può parlare della traduzione letterale versus una traduzione che  cerchi di rendere più ricca la versione di un testo?

GR: Non credo che ci sia molta differenza, ma potrei dire che la traduzione letterale è una cattiva traduzione; lascia fuori sempre qualcosa. Qualcosa di spirituale o di istintivo. Si pensa che ciò accada solo in inglese, ma in realtà è lo stesso anche in altre lingue.

SB: Come il taam (sapore/gusto).

GR: La traduzione letterale è più simile a un dizionario, e io adoro leggere i dizionari. Se avessimo preso in considerazione quello che è accaduto alla torre di Babele, non avremmo ottenuto nulla.

HA: Lei pensa che i traduttori siano adeguatamente riconosciuti come si suppone che dovrebbero essere in tutto il mondo?

GR: Come meriterebbeo? No di certo. Sono viaggiatori, persone che soddisfano un bisogno, ma non fanno nulla di più.

SB: Se esistesse il Premio Nobel per la traduzione, lei sarebbe il primo a riceverlo.

GR: Non lo otterrei perché non lo consegnano postumo!

HA:  Stan ha realizzato pubblicazioni in più di 53 lingue doing (ma chi le conta?), e lei ha collaborato con lui per un po’. Può raccontarci qualcosa in merito?

GR: Ci sarebbe molto da dire, perché tutte le volte che Stan pubblica un libro, la mia prima reazione spontanea è quella di scuotere la testa e dire, “Come fa una persona a fare una cosa del genere?” Quando lo vedo e vedo come c’è chi vorrebbe negarlo, ma vedo una persona molto rilassata,anche se potrebbe sbuffare. Mi auguro che qualcuno dei suoi libri abbia un grande impatto globale, ma difficile con i lavori di traduzione  non abbastanza “comuni”. La roba mediocre vende. Il bestseller straniero assoluto è L’alchimista, un polpettone.

Bill Wolak: Ci parli della II Guerra Mondiale.

GR: Schedata. (Ride) Sto scherzando; Jim Black era uno dei miei  camerati. Ci davano tutte le istruzioni per dare nome grado e numero di matricola, se fossimo stati catturati. Jim ci rifletté su e disse, “Io dirò loro tutto ciò che so, ma li annoierò a morte con tutti i dettagli”. Sono stato in Italia e in Nordafrica. Mi sono occupato della resa in Italia, trattando con Karl Wolff, il SOB che era a capo delle SS in Italia. Noi andammo in Yugoslavia per portare via i piloti abbattuti che stavano bombardando i giacimenti petroliferi rumeni. I partigiani li avrebbero presi e radunati e saremmo andati e avremmo cercato di portarli in Italia.

BW: La decrittazione l’ha aiutata per il lavoro di traduzione? Quando io insegno poesia dico ai miei studenti di decodificarla; una volta che si è considerato il codice come similitudine e metafora, è OK.

GR: Il primo passo era tradurre dall’inglese all’inglese; se ricevevamo un messaggio dal campo di battaglia, i codici erano così dannatamente semplici e primitivi che qualsiasi tedesco li avesse avuti li avrebbe decifrati. Nel caso in cui il testo in chiaro fosser arrivato dal centro messaggi, lo si doveva cambiare, e ogni messaggio doveva essere parafrasato. Era dura. Bisognava lavorare in modo che se l’avessero trovato, si sarebbe voluto più tempo. Cose come “ordine di battaglia” - erano difficili da rendere più complesse, così usavamo cifrari e dovevamo cavarcela con i sinonimi.

BW: L’appassiona ancora il suo lavoro di traduttore?

GR: Non so se me ne sono mai appassionato. L’ho fatto ma mi si sono trovato invischiato e arruolato.

BW: E lei cosa ottiene da questa minuscola macchina da scrivere?

GR: Ne ricavo l’entusiasmo e la cerco quando la coscienza mi chiama. Ora c’è una storia di San Cristoforo di Eça de Queiroz. Spesso scrivo a mano, ma per me la traduzione è più semplice con la macchina da scrivere. Questa è stata in Brasile molte volte; quando arrivo a un capo devo interrompermi, prendere il rocchetto e riavvolgerlo. C’è ancora un posto sulla Terza Strada dove puoi trovare un nastro. Di solito io ne compro un paio perché non voglio imparare a usare il computer. È una distrazione.

BW: Può descriverci la sua attuale routine quotidiana?

GR: Posso lavorare di giorno, ma di notte ci piace guardare vecchi film su TCM.
Guardo le notizie sul Canale 21, di solito NewsHour con McNeil. Il bello di TCM è che non pubblicizza altro che i loro stessi programmi.

HA: Gli indiani, soprattutto gli indù, credono nella reincarnazione. Cosa vorrebbe essere nella sua prossima reincarnazione?

SB: Un neurochirurgo!

GR: Se mi servisse a qualcosa mi reincarnerei in Dio. Così non dovrei preoccuparmi di nulla. Meglio dell’assicurazione sanitaria! Oppure una creatura nell’universo al di là del telescopio.

SB: Lei ci ha accompagnati in un tour tra passato e presente. Obrigado! Many thanks! Grazie!



Traduzione italiana dall'inglese di Annelisa Addolorato


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lunedì 8 aprile 2013

Un’altra stagione poetica è iniziata. Nel sorriso.


Le foto:





L'evento:


Raccolgo qui i componimenti poetici frutto della prima edizione del workshop-laboratorio poetico intitolato “Straniero al mondo, straniero a se stesso” che la neonata associazione culturale Si.Fa, ha organizzato (con il patrocinio del Comune di Milano, dell’assessorato alla Cultura, Moda, Sport, e delle Biblioteche Civiche Milanesi, e in gemellaggio con le iniziative di “100thousand Poets for Change”) quest’anno per celebrare il 21 marzo, giornata mondiale della poesia, primo giorno di primavera, e anche compleanno della controversa, complessa, limpida, fertilissima e splendente poetessa milanese Alda Merini (nata nel 1935). La location scelta per l’evento celebra di per se stessa tutte e tre le occasioni di festa poetica: si tratta infatti della casa-museo di Alda Merini, a Milano, situata nella zona dei Navigli, dove la poetessa ha vissuto e scritto il suo mondo.
Il workshop è stato un’occasione di incontro, o reincontro di noi partecipanti con gli scritti e le atmosfere della vita della scrittrice.
Nel cuore di Milano, il centro del mondo della vita e della creatività di Alda Merini, dove lei scriveva:

“E noi grandi poeti
Assunti alla liquida razza
Di questo incosciente Naviglio” (in ‘Ballate non pagate’).

Sotto la luminosa guida e grazie alle istruzioni di Cristina Chiochia, la curatrice del workshop, abbiamo realizzato un percorso emozionale di gruppo che ci ha portati accanto alle parole di Alda, nelle sue stanze interiori, rispecchiandoci grazie ad esse in un nostro vissuto singolare, solitario o collettivo, tessendo parole, ascoltando le nostre voci e percorrendo e strutturando un sentiero poetico. Seguendo poi altri passi, tra teoria e pratica della scrittura, attivando vari meccanismi creativi, tecniche linguistiche e portando al gruppo il risultato del nostro lavoro con le parole, ognuna e ognuno di noi ha prodotto e poi condiviso con gli altri attraverso la lettura la poesia nata dal percorso.
La lettura finale dei testi è avvenuta simbolicamente davanti al ‘muro degli angeli’, ricostruzione della parete di casa che la poetessa aveva dedicato ai pensieri e alle annotazioni spicciole, come un graffito dell’anima, tracciato e impastato anche con il suo rossetto rosso squillante i versi, numeri di telefono, le liste della spesa, mescolando la vita pratica e terrena, a lei spesso così faticosa ed estranea, forse, alla dimensione eterea, eppure pungente della sua poesia.

Come ci è stato ricordato, c’è chi scrive per necessità, chi per professione, chi per passione e, in tutti questi modi insieme, come anche in altro modo Alda vedeva la nascita della scrittura “così nascono i libri, nell’amore (…), e così il libro prima di nascere dio lo deposita in te come una manciata di fango che diventa luce”. 
                                                                                                   
                                                                                                           A.Addolorato                                                                                                                       



Componimenti poetici nati durante il workshop-laboratorio poetico el 21 marzo, presso la Casa-Museo Alda Merini, a cura dell’Associazione Culturale Si Fa.

Le nostre cinque poesie:

(Annelisa Addolorato)

Condivisione armonica. Jakobson. Ciak: buona la prima.

Funzione referenziale

È sospesa e sorpresa
su un autobus blu
che ondeggia
su un mare
di sguardi e sorrisi

Funzione emotiva

Insieme! Funziona!
E si vola! Insieme!
Siamo sicure?
Siamo sicuri?
Senza dubbio!

Funzione conativa o persuasiva, esortativa

Non perdere il contatto, ora che
c’è. Che è innescato.
Lasciatevi cullare, con me, dal sole!

Funzione fatica o di contatto

(convenevoli, formule di cortesia)
“Va bene?” “Benissimo!”
“Tutto qui?” “Tanta roba!”
“Qué tal?” “Evvai, fratelli.”
“Come butta?” “Datemi un cinque, sorelle.”

Funzione metalinguistica

Prima persona plurale di tutti i verbi, ma
anche la seconda, che si incontrano alla terza.

Funzione poetica, estetica

Premessa maggiore, premessa minore, conclusioni
Condivisione armonica
A occhi aperti, e socchiusi insieme.
Nell’abbraccio senza nomi.
Tra germogli umani. Piante cantanti.
Tappeto vissuto
Trama, fili uniti: un abbraccio.


(Antonella Maria Semilia)

È l'ombra che ti avvolge come un velo, che buio!! 
Resta qui, non chiudere gli occhi ed ondeggia al ritmo lento dell'anima.


(Ciro Caprino)

Luce accolta
Sii fanciulla leggera. 
Attendi se vuoi, con sguardo tento
Aprire io vorrei la bocca tua
E vuota di parole lasciarla senza fiato
Respirerà di brividi la pelle tua
Ti nutrirai ovunque anima bimba mia
Hari om



(Luca Maghernino)

L'amore è gioia, noi siamo amore.
L'amore è emozione.
L'amore vince il male.
L'amore è sensazione, contatto e vicinanza.
Non c'è amore senza dialogo e comunicazione.
L'amore è energia e vita.
E quando uno prova gioia è felice.
Quando rido mi emoziono.
Mi sento vivo perchè respiro.



(Michela Grandinetti)

Mia energia
Accoccolata ad ascoltare il mare,
in questo circolo compenetrante di rose:
gioco meraviglioso, divertente, pieno di colori.
Ti guardo, ti vedo, ti sento dentro me, densa
di significato, in profondità che esplode e mi
accarezza il volto.
Ebbene. Ti adoro.
Ed ora che ti ho trovato non ti lascerò
fuggire lontano ma ti porto appresso,
nel mio cuore perchè possa inebriarmi della
tua bellezza, e della tua melodia.
Ma tu,
saprai pazientare,
accogliere le mie titubanze,
dolce energia?




lunedì 12 marzo 2012

Maria Bennett, tradotta da Annelisa Addolorato









Poesie dalla silloge because you love

(Cross-Cultural Communication, Merrick, New York 2011)















because you love

because you love
you live
by dreaming

in this windowless room
where
a hollowed heart
is no consolation prize

hold this weight
aloft

these pieces
of migrant
beauty
you
cling to
which
cannot
be disguised
even
by
the curtain
of fear
that cloaks you
like a skin

because you love
you live
by dreaming
and in this dreaming
find
deliverance



perché tu ami


perché tu ami
vivi
sognando

nella stanza senza finestre
dove
un cuore vuoto
è un premio di non-consolazione

prendi questo peso
in alto

questi esemplari
di bellezza
migrante
tu
falli aderire
a ciò
che non può
essere mascherato
neppure
dalla
cortina di paura
che ti avvolge
come una pelle

perché tu ami
tu vivi
sognando
e in questo sognare
trovi
sollievo



rules of love

for me to love
you
i must
enter
this forbidden space

abandon the familiar

unlearn the expectations
written in bone
which
wall us
in

the obligation
to impossibilities
must begin
here
and now

to stir
new dreams
to bend to
this desire

keeping faithful
to all
our wanting


regole d’amore

per amarti
io
devo
penetrare
in quegli spazi proibiti

abbandonare ciò che è familiare

disimparare ogni aspettativa
scritta nelle ossa
e che ci blinda

l’obbligo
delle impossibilità
deve avere inizio
qui
e
ora

per incitare
nuovi sogni
a piegarsi
a questo desiderio

essendo fedeli
a tutto
il nostro
volerci



the softer fall

be my tree
so I can nest
quietly

in the curve
of your twisting
branches

resisting the impulse
for flight
while gravity now
offers
the opportunity
of a softer
fall


la caduta più morbida


sii il mio albero
così potrò tranquillamente
fare il nido
nella curva
dei tuoi rami
avvolgenti

resistendo alla tentazione
di volare via
mentre ora la gravità
offre
l’opportunità
di una caduta
più morbida



Bio-bibliografia


Maria Bennett insegna scrittura creativa presso il College della Hostos Community della Città Universitaria di New York, dove per più di ventisette anni è stata docente di inglese. Sue poesie sono stata pubblicate in varie riviste e periodici, tra i quali California Quarterly, Timber Creek Review, Gargoyle. Sue traduzioni in inglese dei poeti ispanofoni Nancy Morejon, Ernesto Cardenal e Cintio Vitier sono apparse su Nexus, Crab Creek Review, Esprits. Sta attualmente lavorando alla traduzione dell’opera del poeta spagnolo Carlos Edmundo de Ory. Sue recensioni e articoli sono apparsi in varie testate, tra cui The Daily News, Utne Reader, Epicurean. Ha pubblicato la monografia critica The Unfractioned Idiom: Hart Crane and Modernism, apparsa nel 1987 nelle edizioni Peter Lang.