(Realizzata con l’appoggio
di Stanley H. Barkan, titolare della casa Editrice Cross-Cultural
Communications)
Una volta la poetessa
Muriel Rukeyser disse che l’universo è fatto di storie, non di atomi. Per il
celebre traduttore letterario Gregory Rabassa, conosciuto in tutto il mondo, la
vita e il lavoro sono intrecciate in una fitta rete di storie, i gioielli nella
rete di Indra, che lui e sua moglie Clem hanno recentemente sfoggiato
gentilmente davanti a noi durante un assolato pomeriggo di settembre. Nato a
Yonkers (New York) nel 1922 (non lontano dalla casa natale di Ella Fitzgerald, dove
oggi campeggia una statua di bronzo della leggenda del jazz), l’ex crittografo
OSS raggiunse la fama letteraria con la sua traduzione di Cent’anni di solitudine
di Gabriel García Márquez, vincendo nel 1977 il Premio alla Traduzione per
il suo lavoro, che lo stesso García Márquez sostiene essere persino migliore
del romanzo originale in spagnolo. La lista degli scrittori con cui ha lavorato
durante gli anni suona come la lista del gotha degli scrittori ispanofoni e
lusofoni: Cortazar, Lezama Lima, Vargas Llosa, Machado de Assis, Lispector. Ha
già avuto modo di dire molto riguardo a loro nel suo libro di memorie
riguardante la sua vita di traduttore, Se questo è tradimento, che nel
2006 vinse il premio PEN per la sezione ‘Arte delle Memorie’… Eppure credo che
le sue storie migliori non siano ancora passate al vaglio della tradizionale
macchina da scrivere Olympia blu che si trova di fianco a una pila di libri nel
suo soggiorno nell’Upper East Side. Anche se deve essere dura fornire una costante
fornitura di rocchetti all’antica perla, Rabassa la preferisce al compuer, ed è
splendido immaginarlo mentre ticchetterà, in futuro, scrivendo di quando ha
ballato insieme a Marlene Dietrich in una festa di OSS ad Algeri o
dell’autostop da Dartmouth, sua alma mater, fino a New York City all’Onyx jazz
club, dove si sarebbe goduto concerti di musicisti del calibro di Leadbelly,
sassofonista di Brew Moore, e Charlie Parker. E c’è sempre la storia del
corteggiamento alla sua adorata Clementine, una splendida artista e co-cospiratrice
in questo cimine del tradimento traduttivo (fu Clem a scovare la brillante
trovata di rendere la Guaracha di La Guaracha del Macho Camacho di
Luis Rafael Sánchez come Macho Camacho's Beat, lasciando intatti il riferimento musicale e di danza musica e il
ballo che sicuramente avrebbe messo in difficoltà altri traduttori). Ma oggi
Gregory è soddisfatto nel trovarsi seduto in una comoda poltrona, con in mano
il Libro egiziano dei morti (incluso nella sua breve lista dei preferiti),
e condividendo i suoi pensieri sulla traduzione o, come lui lo definisce, il lavoro di “uomo dei
viaggi”.
Altri presenti: Clementine Rabassa (Poetessa,
moglie del traduttore)
Intervistatori partecipanti:
Maria Bennett (Poeta/Principale
intervistatrice)
Hassanal Abdullah (Poeta bengalese/Editore di Shabdaguchha)
Stanley Barkan (Poeta/Autore/Editore
di Cross-Cultural Communications)
Bill Wolak (Poeta/Fotografo)
Non presenti (ma che hanno in
precedenza inviato a Maria Bennett domande da rivolgere all’intervistato):
Beverly Matherne (Poetessa
cajun/Traduttrice)
Kyung-Nyun Kim Richards (Poeta coreano/Traduttore)
Maria Bennett: Vorremmo
chiederle tutto in merito alla sua lunga e straordinaria carriera di traduttore;
ad alcune domande forse avrà già risposto in passato, ma tutte provengono da
scrittori molti interessati nel suo lavoro. Mi sono sempre chiesta, data la
portata del numero di opere che lei ha tradotto, quale di esse sia stata la
sfida più grande.
Gregory Rabassa: In
realtà la sfida più grande che ho affrontato è stato decodificare e tradurre i
messaggi durante la II Guerra Mondiale riguardante la resa dei tedeschi in
Italia. Alcuni erano in tedesco, che era un tratto. Il mio lavoro di crittografo
ai quei tempi è stata contemporaneamente anche un’esperienza di traduzione. Comunque
nell’ambito delle traduzioni letterarie, il lavoro più complesso è stato Paradiso, di Lezama Lima. È anche stato
un libro difficile da leggere, così la pura complessità del romanzo sicuramente
è stato uno dei motivi del successo della sua traduzione inglese. È stato come
tradurre Joyce. In vita mia ho letto altri libri complessi, ma non ho mai
dovuto tradurli. Ma è anche stato divertente. A volte i libri sono come puzzle:
quelli difficili sono i più divertendi da tradurre.
Beverly Matherne: “Qualcuno
che non conosce una lingua ha davvero il diritto di lavorare come traduttore
del lavoro di uno scrittore in quella lingua? O forse con un “complice” che la
conosce?
GR: Solo in un senso; tecnicamente, no, ma
in realtà, sì. Io on sono molto interessato ai tecnocrati della traduzione. Di
solito non riescono a rendere molto bene il senso di ciò che traducono. È come
se guidassero un’automobile, mentre il vero traduttore sta andando a cavallo; i
pignoli possono trovare soluzioni inadatte.
BM: Una persona non
madre lingua può essere considerate traduttore?
GR: In una certa
misusa, ma non è un buon esempio, prendendo una parola del significato simile.
Forse dovremmo trovare un altro termine per definire quell tipo di persona. O
forse i traduttori dovrebbero essere distinti in traduttori di prima classe,
seconda classe, eccetera. Il traduttore in questione deve conoscere qualcosa
della terra ‘adottiva’, e capire che c’è poesia in ogni parola che si utilizza,
e che nell’uso ci sono anche alcune parole preferite rispetto ad altre.
Stanley Barkan: Perché
non si è mai occupato di poesia? Di fatto se ne tiene lontano, traducendo
romanzi.
GR: Credo che sia più difficile. Richiede
più riflessione. E poi preferisco la mia poesia ‘vintage’. Non avrei mai potuto
tradurre Shakespeare in spagnolo; non sono solamente parole. E se si considera
la poesia contemporanea, potrebbe essere un lavoro infernale. Invece, se si
fosse preso un libro e separato in strofe, avrebbe anche potuto funzionare.
MB: Lei dice di non
leggere l’intera opera quando inizia il processo di traduzione. Come si
articola questo suo metodo? Altri avrebbero innanzitutto letto l’intero libro.
GR: Funziona
abbastanza bene perché non è un metodo, ma piuttosto un gesto, un’azione. Puoi
rimanere vittima di un metodo.Per prima cosa, pensare al presente, al passato,
al futuro. Quando traduci un libro, è del tutto nel presente, perché ancora non
l’hai letto tutto. Se torno indietro e lo leggo, il present non lo è più, ma
diventa passato. È difficile descrivere la differenza, ma è come se fosse il
corso di latino, quando si doveva tradurne dei brani per imparare la lingua.
Vai avanti ma non sai come sarà il futuro. È piuttosto come un mistero. È una
sfida perché si sta ricostruendo qualcosa. Certamente richiede anche più
attenzione lavorare con le parole di per se stesse, piuttosto che con un
sistema. Come organizzare queste parole? Questo è il punto.
SB: Perché si è concentrato esclusivamente sullo
spagnolo e sul portoghese?
GR: Erano lì. E io
li stavo insegnando. Non ho mai lavorato con il francese, anche se l’ho
studiato a lungo. Se io mi fossi addottorato in lingua francesre, avrei
lavorato anche con il francese e con altre lingue. L’unica ragione per la quale
mi sono occupato dello spagnolo e del portoghese è che erano a portata di mano.
Ho sempre studiato il latino, che è una lingua complicata. E ho anche imparato
il russo, che di solito viene considerato molto difficile, mentre io trovo che
sia più semplice del latino. Con
il latino, mi sentivo soffocato dalla grammatica. Ma la formazione primaria è
stata utile, quando abbiamo dovuto tradurre un brano in buon inglese. Ora non
fanno più questo tipo di traduzione nelle lezioni di lingua. Dovevamo anche
ordinare una tazza di caffé come parte dei nostri studi, ma questo è successo
dopo.
MB: Quali lingue
avrebbe voluto imparare?
GR: Sicuramente l’antico egizio! (dice
indicando la copia del Libro egiziano dei
morti che si trova accanto a lui). Avrei potuto lavorare su Proust, credo.
Mi è sempre piaciuto molto; ma era troppo tardi quando ho pensato di dilettarmi
con il suo capolavoro. Ora lo sto rileggendo con molto godimento.
MB: Ci sono anche
altri “libri volati via” o autori che guardando indietro le fanno dire “avrei
davvero dovuto cimentarmi con lui o con lesi!”?
GR: L’ho pensato a
lungo il Sertão di Guimarães Rosa a lot: Veredas (tradotto da Harriet de Onís come The Devil to Pay in the Backlands). È molto affine a Finnegans Wake.
MB: Wake è stato
tradotto?
GR: Qualcuno ha
sostenuto che lo stesso Finnegans Wake
è una traduzione! Io so che Ulysses
fu realizzato dal brasiliano Antonio Houaiss, che mise insieme un dizionario e
che è di fatto un linguista. È
geniale per i giochi di parole, ma molta
della poesia si è persa. Solo così si può andare lontano con opere del genere,
dal momento che il divario tra le lingue è comunque presente.
SB: Quale premio o
riconoscimento, tra più di cinquanta che ha ottenuto, è il più importante, ai
suoi occhi?
GR: Per quanto
riguarda il prestigio, la Medaglia Nazionale delle Arti è stata la più
importante per me; l’altra fu la medaglia PEN per la traduzione concessa alla
mia generazione. Sento che sto chiudendo il cerchio. Ho ricevuto il primo di
questi premi, ma a maggio ho dovuto consegnare l’ultimo a Margaret Sayers
Peden, un grande onore: come amico e collega la conosco da anni, per questo è
una delle onoreficenze che
preferisco.
MB: Qualche anno fa
un giornalista del New York Times ha
scritto: “Se Rabassa fosse stato un neurochirurgo, non avremmo mai avuto traduzioni leggibili delle migliori
opere della letteratura latinoamericana. Poteva rientrare nella sua classifica
delle professioni preferite?
GR: No, se mi fossi
addentrato nell’ambito della medicina, sarebbe stato davvero un bel lavoro, ma
non il lavoro adatto a me. Probabilmente ce l’avrei fatta, ma non so fino a che
punto sarei stato bravo.
MB: Fortunatamente
per noi non lo sei stato!
Kyung-Nyun Kim Richards: Quale consiglio darebbe agli aspiranti traduttori che stanno iniziando
ora a lavorare?
GR: Di fare i
neurochirurghi! Faranno molti più soldi! Oh, di sicuro! (tutti ridono)
MB: Il giornalista
del Times scrive anche che: “Lui ha
capelli bianchi che indossa come se fosse una corona”. Se questo è vero, lei è
il re della traduzione letteraria latinoamericana?
GR: La corona la
indosso davvero. Forse è quello che voleva dire, una testa coronata.
SB: Ma è difficile
che una testa coronata menta!
MB: Ma in molti
casi, è vero. Pensa a Rayuela, di
Cortazar (Hopscotch, la prima
incursione di Rabassa nella traduzione letteraria), García Márquez e il Boom
complessivo negli anni Sessanta. Se lei non si fosse cimentato in quelle
embrionali traduzioni, gli Stati Uniti non avrebbero conosciuto quel genere
letterario. Lei si è trovato nel posto giusto al momento giusto.
GR: Sì, Cent’anni di solitudine ebbe una
risposta molto ampia. Ma le persone oggi se ne sono dimenticate. Se non
l’avessero fatto, si sarebbero accorti che il pozzo esploso nel Golfo si
chiamava proprio “Macondo.” E dove è finito il petrolio? È andato alla deriva a
Barataria, l’isola di Sancho. L’intera questione del petrolio nel Golfo è stata
letteraria!
SB: Mi sono chiesta
se lei preferisce occuparsi di letteratura brasiliana o di quella portoghese?
GR: Preferisco
quella brasiliana. È come se io fossi brasiliano d’adozione, quindi mi prendo
gioco del portoghese. Questa lingua è molto ‘stretta’ perché il Portogallo è
una piccola nazione; i portoghesi hanno poco spazio per espandersi e affrontare
gli altri. Al contrario, il Brasile è molto grande.
MB: So che lei si
dilettava condividendo con Julio Cortázar la passione per il jazz, che vi
scambiavate dischi, e che entrambi amavate la musica innovativa di Charlie Parker.
Pensavo che lei avrebbe avuto qualche idea riguardante il legame tra musica e
arte del tradurre.
GR: Ci può essere
un nesso tra note e idee. Ma credo che non sia necessario scegliere uno
strumento. Da giovane andavo in autostop da Dartmouth alla 52° Strada per
ascoltare jazz. A quei tempi viaggiare con i camionisti era più sicuro. Andavo
al Three Deuces e al Kelly’s Stable, e più tardi al Village to The Open Door, che
ora forma parte della Scuola New-yorkese di Diritto. Ricordo anche di aver
visto Leadbelly al Village Vanguard, e anche Brew Moore, il sassofonista. Avevo
un pianoforte bianco nel mio primo appartamento, ma non ho mai imparato a
suonarlo.
MB: Quale è stato il
suo errore più grande, se c’è stato, come traduttore?
GR: Probabilmente ho fatto moltissimi
piccoli errori, ma ancora nessuno li ha scovati. Non posso pensare a un solo
libro in cui non ne abbia fatti, perché mi piacciono tutti, persino i peggiori!
E con Asturias, l’unica cose sbagliata è stata che non aveva avuto intorno
Maxwell Perkins che accorciasse un po’ il suo lavoro. Non sono molto contento
della traduzione cui hanno messo il titolo di Bras Cubas as Epitaph of a
Small Winner. È stato cambiato anche Quincas
Borba.
MB: Perché hanno
cambiato in modo così sostanziale anche Bras
Cubas?
GR: Credo che allora
stessero cercando di rendere il ruolo di questo luogo minore in America Latina.
MB: Spesso mi sono
chiesta come lei sia arrivato al titolo di Macho
Camacho’s Beat dall’originale titolo
La guaracha del Macho Camacho, di Luis Rafael Sánchez da Porto Rico. È
perfetto, e mantiene lo stesso ritmo musicale della guaracha.
GR: Bene, il
traduttore è seduto proprio qui! (dice indicando sua moglie, Clementine) E il
‘beat’, il battito ha due significati, e include ‘i colpi’ dei poliziotti.
Clementine Rabassa: Eravamo
seduti sulla spiaggia di Luquillo, a Porto Rico, e stavamo discutendone con
l’autore, e non abbiamo resistito. Io adoravo ballare la musica latinoamericana
all’epoca di Tito Puente, e la musica forma parte della cultura in modo così
sostanziale che è stato necessario mantenerne il senso anche nel titolo del
libro.
MB: Clem, in che
misura lei ha supportato, aiutato suo marito nel suo lavoro?
CR: Un po’, ma non
molto. Dal 1966, l’ho tolto dalla strada. (Lei ride)
MB: E immagino che
anche il suo lavoro di professore a CUNY l’abbia fatto. Ricordo quando negli
anni Ottanta studiavo al Dipartimento del
CUNY di Letteratura Comparata; la prima cosa che gli altri studenti mi
dissero fu che mi dovevo subito iscrivere al corso di traduzione del Prof.
Rabassa’s , perché era così popolare che i posti disponibili finivano molto in
fretta. Era così, mi iscrissi ed era l’appuntamento più avvincente della
settimana che io ricordo. I suoi studenti la adoravano. Le sue storie, I suoi
aneddoti facevano luce sulla trama della rete del traduttore. Come ha trovato
il tempo per insegnare e svolgere anche il suo lavoro di traduttore?
GR: Non sono un
ricercatore. Prima mi siedevo e lavoravo alle mie traduzioni, e poi dal momento
che avevo letto i libri, potevo insegnare, e semplicemente entrare in classe e
parlare. Sa, quando mi hanno chiesto di scrivere un libro sulla traduzione (Se
questo è tradimento), pensavo di averlo fatto, invece lo definirono libro
di memorie did, anche se in realtà si trattava di una raccolta di diverse
storie. Credo che qualcuno mi abbia definito un vecchio stupido! (Ridiamo)
Hassanal Abdullah: Ci può
spiegare come è cambiato l’insegnamento della traduzione?
GR: Ho tentato di
parlare di questo, perché credo che non si possa realmente insegnare. La parte
fisics è l’editing di un testo tradotto. Non posso dire come lo faccio io, ma
posso aiutare uno studente a riprodurre tale processo. E lei lo sa, Hassanal,
io amo il vostro alfabeto.
HA: My language is
something for which studenti che furono uccisi nel 1952, quando i Pachistani
volevano che parlassimo urdu.
GR: García Márquez
descrisse in modo sublime l’alfabeto sanscrito, in Cent’anni di solitudine. Scrisse: “Le lettere sono infilate insieme
come panni stesi”.
HA: Cent’anni di solitudine - è stato quest
il primo libro? Come arrivò a questo libro?
GR: Al centro per
le Relazioni Inter-Americane, inaugurarono un dipartimento culturale per
realizzare traduzioni in inglesei di libri latinoamericani. García Márquez era
diventato famoso, così dissero, “Avventuriamoci
nell’inglese!”. Scrissero a vari editori, e Harper and Row, con Cass Canfield Junior,
furono coinvolti. Dal momento che avevo già realizzato alcune traduzioni, mi
chiesero se volevo occuparmi della versione inglese del libro.
HA: Sia io che mia
moglie riteniamo che la traduzione di questo libro sia più ricca
dell’originale.
GR: Lo stesso García Márquez è
d’accordo. Io ritengo, modestamente, che il merito vada alla lingua inglese. Si
tratta di un libro che sarebbe potuto essere scritto in inglese. Come i sonetti
di Shakespeare. Erano lì e Shakespeare riuscì a metterli giù come nessun
francese avrebbe potuto fare.
SB: Ricordo che che
le chiesero spesso se avesse abbastanza spagnolo. Ma lei ha risposto
chiedendosi invece se avesse abbastanza inglese.
GR: Credo che il
passato sia un prologo.
HA: Lei scrive
anche in inglese. È cresciuto in una famiglia bilingue?
GR: Non proprio. Mio
padre arrivò a New York a vent’anni e divenne un newyorkese. I cubani si adattano
velocemente al paese che li accoglie. Quando si tagliava un dito, avrebbe
inveito in spagnolo, ma sapeva farlo abbastanza bene anche in inglese. A volte
sento ancora la sua voce che dice ‘mannggia’ in inglese: “God dem!”
HA: Crede che una
famiglia bilingue avrebbe fatto la differenza, nel suo lavoro?
GR: Sì. Sarebbe
stato diverso. La psicologia culturale mi fa sentire più che altro un outsider.
Mio padre era un doppio esiliato, e mia madre semplicemente un’esiliata, dal
momento che lui era esiliato da Cuba e poi era diventato un newyorkese e infine
era emigrato nel New England. Mia madre era una newyorkina e considerava un po’
strano il modo di fare della gente, lassù. Di conseguenza anche noi bambini ci
sentivamo esuli.
HA: Ci può parlare della traduzione
letterale versus una traduzione che
cerchi di rendere più ricca la versione di un testo?
GR: Non credo che
ci sia molta differenza, ma potrei dire che la traduzione letterale è una
cattiva traduzione; lascia fuori sempre qualcosa. Qualcosa di spirituale o di
istintivo. Si pensa che ciò accada solo in inglese, ma in realtà è lo stesso
anche in altre lingue.
SB: Come il taam (sapore/gusto).
GR: La traduzione
letterale è più simile a un dizionario, e io adoro leggere i dizionari. Se
avessimo preso in considerazione quello che è accaduto alla torre di Babele,
non avremmo ottenuto nulla.
HA: Lei pensa che i
traduttori siano adeguatamente riconosciuti come si suppone che dovrebbero
essere in tutto il mondo?
GR: Come
meriterebbeo? No di certo. Sono viaggiatori, persone che soddisfano un bisogno,
ma non fanno nulla di più.
SB: Se esistesse il
Premio Nobel per la traduzione, lei sarebbe il primo a riceverlo.
GR: Non lo otterrei
perché non lo consegnano postumo!
HA: Stan ha realizzato pubblicazioni in più
di 53 lingue doing (ma chi le conta?),
e lei ha collaborato con lui per un po’. Può raccontarci qualcosa in merito?
GR: Ci sarebbe
molto da dire, perché tutte le volte che Stan pubblica un libro, la mia prima reazione
spontanea è quella di scuotere la testa e dire, “Come fa una persona a fare una
cosa del genere?” Quando lo vedo e vedo come c’è chi vorrebbe negarlo, ma vedo
una persona molto rilassata,anche se potrebbe sbuffare. Mi auguro che qualcuno
dei suoi libri abbia un grande impatto globale, ma difficile con i lavori di
traduzione non abbastanza “comuni”.
La roba mediocre vende. Il bestseller straniero assoluto è L’alchimista, un polpettone.
Bill Wolak: Ci parli della
II Guerra Mondiale.
GR: Schedata.
(Ride) Sto scherzando; Jim Black era uno dei miei camerati. Ci davano tutte le istruzioni per dare nome grado
e numero di matricola, se fossimo stati catturati. Jim ci rifletté su e disse,
“Io dirò loro tutto ciò che so, ma li annoierò a morte con tutti i dettagli”.
Sono stato in Italia e in Nordafrica. Mi sono occupato della resa in Italia,
trattando con Karl Wolff, il SOB che era a capo delle SS in Italia. Noi
andammo in Yugoslavia per portare via i piloti abbattuti che stavano
bombardando i giacimenti petroliferi rumeni. I partigiani li avrebbero presi e
radunati e saremmo andati e avremmo cercato di portarli in Italia.
BW: La decrittazione
l’ha aiutata per il lavoro di traduzione? Quando io insegno poesia dico ai miei
studenti di decodificarla; una volta che si è considerato il codice come
similitudine e metafora, è OK.
GR: Il primo passo
era tradurre dall’inglese all’inglese; se ricevevamo un messaggio dal campo di
battaglia, i codici erano così dannatamente semplici e primitivi che qualsiasi
tedesco li avesse avuti li avrebbe decifrati. Nel caso in cui il testo in
chiaro fosser arrivato dal centro messaggi, lo si doveva cambiare, e ogni
messaggio doveva essere parafrasato. Era dura. Bisognava lavorare in modo che
se l’avessero trovato, si sarebbe voluto più tempo. Cose come “ordine di
battaglia” - erano difficili da rendere più complesse, così usavamo cifrari e
dovevamo cavarcela con i sinonimi.
BW: L’appassiona
ancora il suo lavoro di traduttore?
GR: Non so se me ne
sono mai appassionato. L’ho fatto ma mi si sono trovato invischiato e
arruolato.
BW: E lei cosa
ottiene da questa minuscola macchina da scrivere?
GR: Ne ricavo
l’entusiasmo e la cerco quando la coscienza mi chiama. Ora c’è una storia di
San Cristoforo di Eça de Queiroz. Spesso scrivo a mano, ma per me la traduzione
è più semplice con la macchina da scrivere. Questa è stata in Brasile molte volte;
quando arrivo a un capo devo interrompermi, prendere il rocchetto e
riavvolgerlo. C’è ancora un posto sulla Terza Strada dove puoi trovare un
nastro. Di solito io ne compro un paio perché non voglio imparare a usare il
computer. È una distrazione.
BW: Può descriverci
la sua attuale routine quotidiana?
GR: Posso lavorare
di giorno, ma di notte ci piace guardare vecchi film su TCM.
Guardo le notizie sul Canale 21, di solito
NewsHour con McNeil. Il bello di TCM è che non pubblicizza altro che i
loro stessi programmi.
HA: Gli indiani,
soprattutto gli indù, credono nella reincarnazione. Cosa vorrebbe essere nella
sua prossima reincarnazione?
SB: Un
neurochirurgo!
GR: Se mi servisse
a qualcosa mi reincarnerei in Dio. Così non dovrei preoccuparmi di nulla.
Meglio dell’assicurazione sanitaria! Oppure una creatura nell’universo al di là
del telescopio.
SB: Lei ci ha
accompagnati in un tour tra passato e presente. Obrigado! Many thanks! Grazie!
Traduzione italiana dall'inglese di Annelisa Addolorato
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